Una lastra rosso scuro, un oggetto non identificato di primo impatto, incombe di noi e sulla voce sommessa la quale, nell’incipit minimo quanto folgorante di All Is Lost – Tutto è perduto, ci dice addio. Schiacciata sotto un cielo nero e onde sottili e insinuanti, sotto un materiale che le squarcia, come una montagna insormontabile, un’ombra di morte; come un presagio, come una sconfitta. Così parte il film di J. C. Chandor, autore del bello e sottovalutato Margin Call: nuovamente claustrofobico, ma agli antipodi della coralità della pellicola precedente. Qui, l’autore dipinge un’epica che si scioglie nell’impotenza umana, nell’elegia, nell’attesa, nel pericolo dell’invisibile e nell’incuranza della natura e, all’apparenza, del mondo tutto (quante sono le navi che passano accanto a Robert Redford, naufrago passato da una piccola barca a un gommone circolare, strapazzato dalle intemperie?).

Ha quasi l’apparenza di un film apocalittico, All Is Lost – Tutto è perduto, o meglio di un post-apocalittico: tutto è già avvenuto, già distrutto, già finito, appunto già perduto. Solo in un oceano che non finisce mai, ma nemmeno mai comincia, privo di compagnia, di aiuti, persino di parola (in tutto il lungometraggio, a parte l’inizio, pronuncerà al massimo imprecazioni: per il resto, sospiri, urla, rantoli). Sembra anche, pure sullo sfondo ovattato e immobile dei flutti, un survival movie: un tour de force placidamente infernale, alimentato oltretutto dall’assenza di un qualsiasi controcampo di altri (familiari, marinai, soccorritori eventuali). Esiste solamente la presenza dell’uomo (il “Nostro Uomo” come indicano i titoli di coda, e non avremmo potuto dirlo meglio), nella sua ancestrale lotta contro la Natura – una natura quasi leopardiana – ma anche contro la natura (l’essenza) umana e dunque fallibile, fragile, debole. Questo, anche se per tutta la vicenda Redford (a settant’anni passati, che sforzo fisico, che perseveranza, che interpretazione) combatte per dimostrare il contrario. Anche se l’universo preme su e contro di lui, e si riflette persino nel suo volto, solcato da rughe come il moto delle onde, lo sguardo saldo come le rocce e gli scogli, il corpo prostrato ma malleabile.

All Is Lost –Tutto è perduto è un efficace scontro per la sopravvivenza (scontro con se stessi e con il vuoto/pieno: bellissime le riprese continue sott’acqua, un occhio esterno e noncurante, un’entità lontana e indecifrabile a scrutare il protagonista), e allo stesso tempo un incontro oscuro e affascinante con le ignote forze della natura. Chandor però si distacca sia dallo spiritualismo indottrinante di Vita di Pi e dal suo approccio favolistico, scegliendo una via secca, asciutta e più realistica, sia dalla passione dolorosa (quasi folle) e dalla costruttiva regressione al primitivo di Cast Away, scegliendo di costruire l’assolo del personaggio unicamente intorno alle sue azioni, al suo respiro, rinunciando anche quasi del tutto alla musica (che non sia sporadica, fatta di poche note) e tuffandoci in una lenta agonia, una malattia silenziosa da cui cerchiamo di tirarci fuori, noi insieme a lui, con le unghie e con i denti.

Si comincia con un discorso funebre, con quella lastra come una tomba che si chiude lentamente sull’inquadratura: si termina con un altro segno, un’altra presenza, con una mano tesa, nella sospensione di quello che è l’unico momento, forse, immaginato.

Con Tutto è perduto Chandor trova una nuova dimensione della comunicazione filmica, che richiede allo spettatore un impegno, una concentrazione, una partecipazione emotiva e un’empatia totale con l’uomo, che senza parole, senza nome, senza obiettivo che non sia quello di farcela, è perfetto specchio di ognuno di noi.



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